L'antitesi fra mito e realtà,
e fra ideale e reale, 
nella letteratura italiana fra Otto e Novecento

 

Tesina per la Maturità classica, Liceo Tasso, Roma 1980  (Audio) *

 

Due sono i modi di porsi, a parer mio, nei confronti della letteratura, spesso ritenuti antitetici ma in realtà sostanzialmente complementari fra loro.

Il primo tende a inquadrare fatti e personaggi in una data situazione storica, politica e sociale, analizzando l'evoluzione del pensiero attraverso mutamenti di carattere economico e culturale, osservando l'alternarsi delle correnti e dei movimenti artistici secondo le loro tematiche e le loro poetiche specifiche: caratteristica peculiare di questo atteggiamento mentale è l'inquadramento dei fenomeni artistici particolari in schemi generali, l'ansia catalogatrice e l'amore per la definizione a tutti i costi (com'è testimoniato, ad esempio, dalla polemica sul romanticismo e il classicismo di Leopardi), che possono portare tuttavia alla creazione di una rete di –ismi staccati dall'oggetto artistico vero e proprio, e quindi dalla vita reale che lo ha prodotto.

L'altro modo di fruire l'arte passa invece per il cuore, non basando il suo interesse sui rapporti temporali o culturali ma, sincronicamente, cercando di scoprire in ogni tempo e in ogni luogo qualche scintilla capace di accendere una miccia interiore già pronta, dando semmai una risposta a una domanda già aperta, scuotendo l'animo dall'interno e preparandolo a godere della rivelazione quotidiana, sensibilizzando così le nostre capacità di ricezione e di riflessione.

Del resto ogni artista è prima di tutto un uomo, nel quale lo studente può ritrovare se stesso, le proprie ansie e le proprie aspirazioni, e lo studio della letteratura può divenire, innanzitutto, una scuola di vita (secondo la migliore utopia platonica) e l'erudizione un trampolino per le emozioni, i sentimenti e le aspirazioni che ognuno di noi porta con sé nella vita - e non invece quel piatto pavimento di marmo, che noi studenti ben conosciamo, contro cui sbattere la testa nel tentativo, il più delle volte vano, d'imparare a volare.

Pur dando quindi il giusto valore al primo metodo esaminato, preferisco in questo caso seguire soprattutto il secondo, essendo state proprio le sue direttrici ad aver provocato in me il desiderio di esaminare – emotivamente e storicamente allo stesso tempo – un tema ricorrente nella letteratura italiana fra Otto e Novecento, quello cioè dell'antitesi fra mito e realtà, e fra ideale e reale.

Come una secolare altalena, come un pendolo inarrestabile questi due aspetti dell'arte hanno infatti dominato a vicenda le scene artistiche nazionali, rincorrendosi come cane e gatto lungo il corso dei secoli: illuminismo, classicismo, romanticismo, verismo, decadentismo, ecc. si son succeduti nel tempo, su e giù senza sosta, venendo a galla ora l'uno ora l'altro con forza e costanza, polemizzando fra loro e tirando in ballo alleati antichi e moderni, formulando poetiche e stendendo manifesti che fanno impazzire i critici ed esaltare i lettori.

Ma proprio come su di un'altalena essi sono rimasti isolati, l'uno su un braccio l'altro sull'altro braccio di questa leva ipotetica, senza spostarsi di un passo, ognuno arroccato sulle proprie posizioni, ognuno chiuso nella propria incomunicabilità, senza che si verificasse mai la necessaria unione: cerchiamo dunque di vedere meglio, seppur brevemente, alcune tappe di questa dinamica, cominciando col definire innanzitutto cosa s'intende esattamente per "mito" e cosa rappresenti invece il "sogno" (poetico, s'intende), la cui separazione dalla vita quotidiana ha provocato, in più di un autore, non pochi problemi e fratture profonde.

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Il mito è da intendersi, secondo me, come una rappresentazione sublimata e sintetica di esperienze di vita vissute, dalle quali si trae una traccia evolutiva comune che viene idealizzata ed espressa in un quadro simbolico, che ha la funzione di evocare queste singole esperienze ogniqualvolta si viene a contatto con esso: il sogno invece è la ricerca di una realtà separata, in cui le relazioni e gli scambi non avvengono fra queste singole esperienze staccate ma si manifestano in forma fluida e organica sotto una veste mitica ed eroica.

Quando il sogno e la realtà si scontrano, avviene che il soggetto si rifugi nell'uno o nell'altra, oppure che tenda a scambiare di posto i due termini, a creare cioè una realtà di sogno oppure a fare del sogno una realtà effettiva: e poiché nell'Ottocento l'Unità d'Italia aveva assunto significati molto più vasti di quelli semplicemente politici, ecco che i letterati più sensibili approdarono all'ideale risorgimentale rivestendolo di significati quasi mistici, e rimanendo quindi profondamente delusi dal succedersi degli eventi, dovendo impietosamente constatare l'inaderenza dell'ideale al reale.

E' questo il caso, ad esempio, di Ugo Foscolo, sempre teso a ritrovare nel passato quei valori e quella coscienza virile di riscossa che i suoi contemporanei avevano perduto: così, le tombe dei grandi lo riportano, nei Sepolcri, in un mondo esemplare, dove parole e azioni hanno una loro forza epica e dove anche il dolore è effrontato eroicamente, senza lasciar spazio alla mediocrità.

Ma tutto questo è in realtà solo un sogno (Illusioni? Ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore e, quel che è peggio, nella rigida e noiosa indolenza), che non basta a Jacopo Ortis per fuggire o per cambiare la sua realtà, e le sue meditazioni sui Colli Euganei per un attimo coglieranno un qualcosa che, se approfondito spassionatamente, avrebbe potuto salvarlo dal suicidio: mi riferisco alla forza della compassione umana.

Al di là della gloria, dell'onore, del passato eroico degli antichi e del presente squallido e traditore, al di là di qualunque possibile infelice amore romantico c'era infatti per Jacopo-Ugo il ricordo interiore dell'amata madre, che lo tratteneva da un gesto insano: e se egli avesse approfondito filosoficamente il significato profondo (potremmo dire "ontologico"?) di questo suo moto dell'animo, avrebbe forse potuto ricevere una risposta chiara, potente e onnicomprensiva sul vero senso della propria esistenza.

L'ideale in Foscolo fu infatti perseguito fieramente, senza cedere alle lusinghe, senza fuggire il pericolo: ma ciò non bastò a dargli pace, poiché incombeva su di lui un tremendo senso d'impotenza (ben motivato, d'altronde, dalle vicende politiche e familiari che lo colpirono), che lo portò nei suoi ultimi anni a comporre le Grazie, che, se dal punto di vista letterario sono frammentarie e forse disorganiche, dal punto di vista concettuale rappresentano uno sprazzo di luce all'interno di quella profonda disperazione esistenziale: l'idea infatti che le passioni umane si plachino nella visione estetica e che degli esseri astrali ci abbiano donato l'arte come mezzo di elevazione e di purificazione spirituale è un'idea salvifica e importante, innanzitutto da un punto di vista terapeutico, perché l'arte parla direttamente al cuore e ne lenisce gli affanni.

Ma interrogando la sua anima, il suo spirito e la sua intuizione, l'artista deve riuscire a dare delle risposte che siano valide per ogni uomo, cogliendo quel substrato comune a ognuno e proponendo la sua sensibilità senza discriminazioni di sorta; questo però non fu il caso dei numerosi letterati neoclassici del suo tempo, eruditi aristotelici tesi solo alla forma e non alla sostanza, di cui Monti fu un esempio fra tutti.

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La pura spinta neoclassica delle origini, l'opposizione al manierismo, all'arcadismo, al leziosismo di fine Settecento (così placidamente e armonicamente rappresentate dalle teorie del Winkelmann sulla grecità, destinate tuttavia a naufragare nella concezione dionisiaca nicciana e nelle confutazioni degli storici dell'arte successivi) divennero infatti inutile pomposità imperiale, roboante e asservita al nuovo tiranno francese, a quell' "uomo nuovo" napoleonico che si dimostrò ben presto un gigante dai piedi d'argilla.

E mentre il peso delle convenzioni opprimeva l'arte del tempo, una ventata venuta dal Nord permise alla coscienza estetica dell'Ottocento di liberarsene, con quella nuova filosofia e sensibilità che prese il nome di romanticismo: con esso assistiamo a una rivalutazione del sentimento, dell'emozione e dell'intensità delle passioni, e, parallelamente, alla scoperta di un campo d'indagine – quello della storia – rimasto per certi versi quasi inesplorato, portando così alla ribalta aspetti e personaggi che di mitico e di eroico avevano avuto, fino a quel momento, poco o nulla: non che la storia, beninteso, non avesse avuto il suo posto centrale anche nelle riflessioni precedenti (si pensi, ad esempio, al mito illuminista del "progresso infinito" di Condorcet o alle riflessioni di Rousseau sulla nascita della civiltà), ma di essa il romanticismo ribalta radicalmente la natura e la funzione stessa, trasformandola in una storia di individui e di popoli, e ponendola alla base delle nascenti identità nazionali europee.

E il primo letterato che, pur essendo passato per una fase di ardore giacobino e di estetismo neoclassico, riuscì a trovare nelle piccole cose quotidiane, nei personaggi senza gloria, spesso perdenti o frustrati nelle loro aspirazioni, e nelle tradizioni popolari e religiose nazionali quella tanto auspicata alternativa alla magniloquenza e alla pomposità "stile Impero", fu Alessandro Manzoni.

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Personalmente apprezzo molto il Manzoni, sia come letterato (amo il suo stile semi-ironico e la sua fondamentale  umiltà) sia come profondo conoscitore dell'animo umano: nella sua lettera al D'Azeglio egli chiarisce infatti, con efficacia e senza polemica (questo è importante, discutere senza polemizzare), come la mitologia – o forse sarebbe meglio dire il "mitologismo" – sia una forma di sostanziale paganesimo, e quindi di idolatria.

Il mito diventa infatti, per Manzoni, solo un ricordare nostalgico, l'amore (inteso in questo caso come eros e non come agape cristiano) una "passione di lusso", e le grandi gesta nascondono sempre dei retroscena poco edificanti: è il dolore l'unico grande titano del mondo, ed esso deriva il più delle volte dall'odio, cosicché solo l'amore risulta essere l'unico rimedio per i mali dell'uomo, secondo il messaggio evangelico.

Come esempio migliore di questa ideologia manzoniana si faccia un paragone fra il Giuramento di Pontida di Berchet e il Marzo 1821 di Manzoni: mentre nel primo vi è un incitamento all'odio (seppure giustificato ed espresso sotto forma di ardore bellico e militare), nel secondo la riscossa della nazione italiana passa attraverso la comprensione che la guerra è pur sempre una cosa negativa (anche quando è necessaria), cosicché l'autore si rivolge agli Austriaci mostrando loro sì i propri torti, ma umanamente, senza baldanza né tracotanza – come dire che, se non si può farne a meno, anche la violenza può essere necessaria, ma senza esercitarla con odio, bensì come un compito ingrato da svolgersi con distacco, applicando comunque il dettato cristiano del "porgere l'altra guancia" (perlomeno a un livello di aspirazione interiore).

L'anticlericale Carducci sparò a zero sul cristiano Manzoni, ma pure lui, alla fine, dovette abbassare la testa di fronte ai Cipressi di san Guido, e in quel momento scrisse la sua poesia più bella: come si può del resto pretendere di poter cambiare il mondo se non ci si immerge al suo interno e lo si osserva soltanto dal di fuori, immergendosi continuamente nel passato e rischiando così di affogare (come nel caso di Leopardi)? Come possiamo riuscire a scivere una poesia eterna, se poi non riusciamo a sopravvivere nemmeno al presente?

Non possiamo limitarci a cercare, a conoscere, a sognare soltanto, ma dobbiamo affrontare la realtà, altrimenti il rischio di alienarci diventa tanto maggiore quanto maggiori sono le nostre scoperte - o le nostre fantasie: e l'esempio lampante di ciò è per l'appunto il Leopardi, vera e propria reincarnazione dell'antico Petrarca (con cui condivide più di una caratteristica, sia nella vita che nell'opera), che ha toccato il cielo con un dito ma che poi non ha saputo vivere nel quotidiano, bloccato dalle circostanze esteriori ma anche dalla sua effettiva incapacità di giostrarsi nelle cose del mondo.

Ho provato in realtà un certo terrore nel pensare alla vita interiore di questo poeta, nel provare a immedesimarmi in lui, nelle sue intuizioni, nelle sue frustrazioni, nei suoi slanci affettivi o nelle sue meditazioni solitarie: tanta sensibilità, tanta capacità di critica e di comprensione, tanta maestrìa linguistica e musicale da far impallidire i pennivendoli a lui contemporanei, eppure non ha mai conosciuto – forse – le gioie dell'amore giovanile, non ha mai partecipato alla felicità della gioventù del loco, che mira ed è mirata e in cor s'allegra.

Come il profeta biblico, che scala la montagna per parlare con Dio e poi torna a valle per comunicarne le rivelazioni alla massa, così anche l'artista non può pretendere di isolarsi entro i suoi miti e i suoi sogni privati, perché a valle c'è Babilonia che aspetta, uomo fra gli uomini (se non addirittura "cosa fra le cose"): e se egli sa vedere davvero, vedrà che Dio è in mezzo agli uomini e che la realtà manifesta in ogni istante la Sua Gloria, di cui l'artista stesso partecipa tramite l'atto creativo.

Il piccolo Giacomo era, forse, inizialmente un bambino come gli altri, poi gli altri sono cresciuti e lui è rimasto bambino (o è vero invece il contrario, e l'unico uomo compiuto è in realtà il poeta, circondato da un'umanità infantile che non vuole crescere?): del resto anche noi studenti, se non vogliamo applicarci solotanto per forza d'inerzia o per necessità contingente, dobbiamo imparare a consolare i "piccoli Giacomi" intorno e dentro di noi, poiché l'arte e il mondo intero sono ormai giunti a una svolta, decisiva e irreversibile: o la testa o il cuore, o il centro o la periferia.

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E il poeta che più di ogni altro ha scelto il cuore è stato, a mio parere, Giovanni Pascoli: è singolare notare come la sua storia, per certi versi, sia stata simile a quella di Leopardi – adolescenza difficile, mancanza di relazioni sentimentali e di una vita coniugale, vita contemplativa e appartata. Ma egli riuscì, dopo l'esperienza carceraria di Bologna, a trovare un senso al suo dolore (era ridotto in effetti piuttosto male ai tempi dell'Università: beveva, fumava molto, era depresso e passava tutto il suo tempo nei bar), e così riuscì con uno scatto di reni a risollevarsi dal baratro e a elaborare quella "poetica del fanciullino" sulla quale mi trovo, personalmente, profondamente d'accordo.

Forse un marxista o uno storicista convinto non mi perdonerebbero questo salto di quasi sessant'anni fra i due poeti, ma ciò che in questo caso m'interessa è cercare di illustrare un sentimento, un moto dell'animo, e non di rispettare la consecutio temporum: non è stato del resto proprio Hegel, la pietra angolare della filosofia moderna, a parlare per primo di "sintesi dialettica"? E' infatti proprio operando per sintesi (ma una sintesi reale, non apparente) che si possono scoprire dei particolari e degli aspetti che all'analisi sfuggono… ma tutti questi paroloni avrebbero sicuramente impaurito il fanciullino che abitava nel cuore di Pascoli, il quale tendeva più a scoprire la realtà che a definirla, girando con lei aenza cercare inutilmente di fermarla.

Lo demoliscono definendolo provinciale, piccolo-borghese o infantile: sarà pure vero, probabilmente, perché le sue poesie non sono le cattedrali di Carducci o le sinfonie di D'Annunzio. Però Pascoli è un poeta puro, trasparente, non borioso né desideroso di gloria, un poeta spontaneo e vivace: e soprattutto è un esempio di vita, di come si può effettivamente conciliare il quotidiano con l'ideale, di come i classici e gli eroi di un tempo possono essere evocati – indirettamente, s'intende – anche in un canto di Lavandare.

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Ho parlato di Pascoli perché volevo riallacciarmi al Leopardi e fornire un esempio pratico di questa possibilità di far aderire l'intuizione e il sogno poetico alla vita quotidiana, ma non vorrei tralasciare un importante fenomeno che, intorno al 1860, sorse in tutta Europa come reazione al fossilizzarsi delle tematiche romantiche: mi riferisco al positivismo e ai suoi aspetti culturali e letterari, e cioè il naturalismo in Francia e il verismo in Italia.

Il merito del verismo è stato quello di aver aperto la strada verso uno stile di rappresentazione della realtà considerata nei suoi aspetti più umili, ordinari, a volte tristi, e di averli elevati al rango di arte, seppure nuda e cruda come il mondo circostante, senza volerne esorcizzare gli aspetti più coriacei e drammatici ma immedesimandosi completamente nelle situazioni e nei personaggi trattati, quasi scomparendo al loro interno.

Vennero accantonati così i grandi voli pindarici e la vita divenne primadonna, con le sue meschinità e le sue fatiche: nei Malavoglia, ad esempio, tutto suona come sacro, ogni azione, ogni gesto, povera gente, piccoli uomini che affrontano le loro difficoltà a testa alta, senza fronzoli per la testa. E la contrapposizione fra la mentalità borghese e intellettuale della vita cittadina e una coscienza rassegnata ma dignitosa come quella dei pescatori siciliani diventa un monito, uno schiaffo secco per un'intera classe intellettuale e sociale nazionale.

Vero è che nella susseguente produzione realista poche volte si è potuta trovare un'opera che suonasse come alternativa reale allo status quo esistente, fossilizzandosi lo stile in nuovi schemi espressivi (quali il neorealismo cinematografico, il realismo socialista o addirittura la pop art o l'iperrealismo americani), che non hanno risolto, in realtà, il nodo fondamentale sulla funzione e il valore dell'arte: arte d'élite o arte di massa? Arte colta o popolare? Arte mitica e sognatrice, oppure crudelmente realistica?

Così, il verismo e il positivismo diventarono presto, in un tempo di crisi, nient'altro che puzzo di acido fenico e di sudor popolare, accomunati alle idee socialiste e rivoluzionarie da una classe borghese impaurita e delusa: e l'altalena si spostò di nuovo, fino a quando, con l'espandersi del decadentismo dannunziano, quei pochi valori rimasti crollarono definitivamente, sostituiti ben presto, in campo letterario, da quell'estetismo e da quel superomismo che il Vate desunse da Nietzsche (senza averlo peraltro capito, a detta di molti) e che ben poco avevano in comune, in realtà, con quel culto per gli antichi eroi che ha riunito nei secoli il latino Virgilio, il fiorentino Dante e il romano Cola di Rienzo, per finire in quel vero e proprio ethos di Stato che il fascismo adottò in omaggio al mito eterno di Roma.

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Riveste senza dubbio un certo fascino - a proposito di "volontà di potenza" - l'idea che l'uomo abbia in mano il mondo e lo possa modellare a suo piacimento, compiendo imprese incredibili e scagliando in cielo le sue frecce, giungendo fino a impossessarsene prometeicamente: ma se tutto ciò non è finalizzato verso qualcosa di utile e di concreto, resta soltanto qualcosa di vano, restano solo parole – come in effetti parole bellissime, sillabe magiche, diafane e fluttuanti, furono quelle del poeta D'Annunzio, grande artista senz'altro ma uomo formale e decisamente arrogante, che celebrò situazioni da Basso Impero, crogiolandosi tra profumi e salotti che l'omonimo Arcangelo avrebbe potuto dissolvere in un solo istante.

Il motto parnassiano de l'arte per l'arte ha fatto dunque il suo tempo, poiché non cambia la vita: non dovette quindi passare molto tempo che si vennero nuovamente a creare due strade, che il trivio dell'evoluzione aveva allora divise e che continua tuttora ad allontanare sempre di più… ma queste furono sempre in qualche modo soluzioni di ripiego, nascondigli più o meno celati per esorcizzare una realtà inumana, e non alternative efficaci o realmente credibili.

Socrate infatti è morto da tempo, e a quanto pare non si è ancora reincarnato…

Mi riferisco ai futuristi prometeici e superomisti da una parte, e ai crepuscolari "malinconici e malaticci" dall'altra. Nonostante infatti l'indubbio valore formale delle loro opere, il dinamismo avanguardista dei primi si spense, paradossalmente, nella contemporanea condanna di Majakowski nella Russia bolscevica, da un lato, e nell'universo concentrazionario nazionalsocialista, dall'altro - entrambi casi in cui il principio rivoluzionario della guerra, unica igiene del mondo venne concretamente e massicciamente applicato; e, per contro, l'amore per il cattivo gusto e l'estetica del "piccolo e brutto" di un Gozzano e un Corazzini condussero successivamente al pessimismo e all'esistenzialismo - non direttamente, in realtà, ma per il loro non essersi definiti come polo di attrazione stabile per gli artisti futuri (compiendo così, se vogliamo, una sorta di "peccato d'omissione").

Qui sta infatti, secondo me, il vero nodo relativo all'antitesi fra il mito, il sentimento e il sogno da una parte, e la realtà quotidiana dall'altra: se infatti questi due fattori resteranno perennemente staccati, uno su di un braccio e uno sull'altro dell'altalena, e se essi continueranno ad andare su e giù senza mai incontrarsi, avremo sempre insoddisfazione e indolenza, e le nostre presunte àncore di salvezza saranno solo illusioni, e come tali destinate a svanire.

Ma se invece riusciremo a scoprire la realtà nei suoi aspetti più magici ed eroici (se non addirittura onirici, se vogliamo), se sapremo ritrovare nel vagìto di un bimbo la stessa energia contenuta nella poesia di Omero o nella musica di Mahler, se riusciremo insomma  ad aprirci al mondo in tutta la sua forza e la sua potenza (entrambi passanti necessariamente attraverso il dolore, è evidente - altrimenti come potremmo riuscire a superarli e vincerli?), allora avremo finalmente un'arte vivente e potente, non staccata dalla vita ma espressione concreta e reale di essa.

Allora l'arte cambierà la vita, e l'arte diventerà vita e la vita diventerà arte, come già aveva intuito Foscolo nelle Grazie e cento altri artisti prima e dopo di lui: che quest'aspirazione diventi dunque la parola d'ordine dell'avvenire, per un'umanità nuova e risorta di cui quella attuale non è che un pallido e incompleto riflesso.

Roma, Maggio 1980

 

 

F. Chopin, Notturno in Si magg. Op.62 N.1, pianista Claudio Arrau

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