Athos, cronaca di un viaggio interiore

 

Racconto di viaggio per il Centro Internazionale di Pastorale della Preghiera
(direttore padre Mariano Ballester SJ), Roma 1991
,
in Appunti di Viaggio. Note di ricerca spirituale, Nov. 1992 - Apr. 1993 (Audio)

 

Da molto tempo desideravo visitare il Monte Athos, attrattovi sia dai racconti degli startsi russi, dei Padri greci e dalle grandi figure della spiritualità cristiana orientale che da alcuni strani incontri notturni, durante i quali mi comparivano in sogno dei barbuti personaggi dai lunghi capelli, neri come le loro tuniche, che camminando su e giù per i corridoi deserti di antichi monasteri a picco sul mare mi invitavano a tuffarmi a capofitto nel “combattimento spirituale”, autodefinendosi “guerrieri del cuore”, impegnati notte e giorno nell’eterna contemplazione dei Sacri Misteri dell’Altissimo.

E invero l’ipotesi di un tale viaggio aveva sempre suscitato in me un certo reverenziale timore, misto a una fortissima attrazione per quelle antiche forme di spiritualità orientale tanto misteriose: così, quando mia moglie Marina, dopo aver visto in casa di amici una serie di diapositive sull’Athos, mi espresse la sua meravigliata nostalgia per quei luoghi sconosciuti, mi convinsi definitivamente della necessità di quel viaggio, e decidemmo di partire.

Fu così che ci incamminammo verso il Sacro Monte, con una lettera di presentazione di un amico sacerdote che ci avrebbe consentito di ottenere l’agognato lasciapassare, quel permesso d’accesso per il quale turisti, pellegrini e studiosi possono attendere anche per mesi: e arrivati che fummo a Ouranoupolis, la “città del cielo”, ultimo avamposto della civiltà moderna prima del “Grande Nulla”, decidemmo di compiere un giro in battello che ci permettesse di vedere i monasteri dal mare, consentendo così anche a Marina (che in questa vita, ahimè, è nata femmina e non può quindi toccare il suolo claustrale dell’Athos, rigidamente interdetto a donne e bambini) di contemplare quei luoghi suggestivi e di subirne il misterioso fascino trascendentale.

Vedere i monasteri dal mare è stata un’esperienza indimenticabile e commovente; è stato come tornare in luoghi antichi, già visti, già noti e vissuti dall’anima, che il tempo ha sepolto sotto secoli di oblìo; e mentre il battello scorreva lento lungo la costa, superando l’uno dopo l’altro i ventuno monasteri della penisola, mi sono tornati in mente tutti i racconti, tutti i detti, gli atti e gli aforismi dei Padri d’Oriente, vivi, presenti e chiari come non mai nella loro lapidaria essenzialità, nell'estrema e assoluta totalità di una vocazione che non conosce vie di mezzo: o tutto o niente, o di Dio o del mondo.

Così, quella notte sognai: due anziani monaci, avvolti nei loro rasoni sdruciti, arrancavano in pieno sole su per la ripida salita che dall’attracco delle barche portava su fino al monastero, e quando il vento sollevava le pieghe dei loro mantelli e le braccia si scoprivano, potevo vedere con sgomento che esse erano… senza mani!

Senza mani? Perché? Ma certo… i turchi! I turchi, che flagellavano con le loro scorrerie le coste della penisola calcidica, tagliando le mani ai monaci e mettendo a ferro e fuoco i monasteri!

Al risveglio, il messaggio di questo sogno cominciò a farsi strada dentro di me, e il suo simbolismo profondo divenne pian piano il motivo centrale di tutto il mio viaggio, accompagnandomi come un’ombra nella mia ascesa alla Sacra Montagna; era come se l’inconscio volesse dirmi che qualunque saggezza, qualunque conoscenza, qualunque mistica vetta interiore si fosse mai potuta raggiungere, essa andava sempre comunicata, scambiata, condivisa col prossimo, affinché potesse portare frutto e una spiritualità nuova potesse essere costruita.

“Testa nella foresta, mani nella società”, dice infatti un antico aforisma vedico: e con questa nascente presa di coscienza interiore mi accinsi a sbarcare sulla riva ardente del Sacro Monte dei Padri.

 

*

 

Kaires è la capitale amministrativa dello Stato athonita, una cittadella medievale ricca di storia, di spiritualità e di arte; così, mentre attendevo con gli altri visitatori che il Santo Sinodo si riunisse per concederci il Diamonitirion (il permesso di accesso e di pernottamento ai monasteri), visitai l’antica cattedrale, il Protaton, così chiamata perché fu la prima chiesa a esservi costruita, ricca di affreschi di Manuel Panselinos, nella quale è custodita l’icona più sacra e venerata di tutta la Grecia, e forse dell’intero mondo ortodosso, protettrice dell’Athos e di tutti i contemplativi d’Oriente: l’Axion Esti, “non dipinta da mano d’uomo”.

Quando me la trovai davanti nella piccola cappella oscura, circondata da mille candele e avvolta dal fumo degli incensi, fui pervaso da un forte senso di calore interiore e dalla sensazione di trovarmi di fronte a una forte “presenza spirituale”, come mi è talvolta capitato visitando alcuni luoghi sacri, come la tomba del Santo a Padova o quella di Sri Aurobindo in India, o come quando incontrai per la prima volta Sai Baba.

Mi sovvenne allora alla mente, improvviso, il ricordo di un’immagine che circa cinque anni prima era interiormente scaturita da una meditazione, un’immagine che mi era rimasta impressa dentro in maniera indelebile: un’icona scura, incastonata d’oro massiccio e sfavillante di luce, che raffigurava una Madonna Nera col bambino, circondata da un infinito numero di fiammelle ondeggianti, e ricoperta a tratti da enormi nuvole d’incenso. Dopo cinque anni, dunque, avevo finalmente incontrato il volto di quella Madre che da allora mi aveva silenziosamente guidato fin lì, svolgendo pian piano il filo sottile che mi legava a quei luoghi e a quella spiritualità sconosciuta: finalmente ritornavo a casa, e ad accogliermi ritrovavo proprio Lei.

Così, quando il sacerdote officiante mi chiese se ero “greco” (intendendo con questo “ortodosso”) per potermi somministrare la comunione con il pane ed il vino, un sorriso commosso salì dal mio cuore alle labbra, e nel declinare dolcemente l’offerta mi congedai dalla Madre e dai fratelli orientali, felice per quell’incontro inatteso che rappresentava per me il miglior benvenuto e la più cara benedizione.

Mi misi dunque in cammino verso Est, in direzione del monastero russo di San Panteleimon, dove era vissuto lo starez Silvano e che desideravo da molto tempo visitare: e uscito che fui dal vecchio borgo, vidi che le strade si dividevano e si ramificavano in varie direzioni, e le distanze dei vari monasteri dalla capitale, indicate in un greco sbiadito con dei minuscoli cartelli di legno che sembravano le tracce di una caccia al tesoro, mi consigliavano di scegliere un monastero più vicino dove passare la notte, visto che erano ormai le tre del pomeriggio e avrei dovuto percorrere a piedi molti chilometri.

Così mi diressi verso il monastero georgiano di Iviron, che distava da Kaires circa tre ore di cammino e aveva il pregio di essere posto in una suggestiva posizione sul mare; ancora non potevo sapere, allora, che quella marcia avrebbe rappresentato per me un momento indimenticabile di contatto e di comunione con Dio.

 

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Mentre camminavo giù per il largo sentiero che dalle colline scendeva verso il mare, immerso nel silenzio e nella solitudine più assoluti e avvolto dal rovente caldo secco dell’estate greca, mi pareva infatti di perdere per strada, passo dopo passo, ogni pensiero, ogni concetto, ogni preoccupazione e agitazione, e di diventare sempre più una “cosa fra le cose”, immerso nella contemplazione della natura e dei suoi misteri; tutti gli insegnamenti e le testimonianze dei Padri orientali mi apparivano adesso comprensibili e, quel che più conta, praticabili e sperimentabili, perché in quel momento stavo camminando sulle loro orme, e stavo sperimentando una frazione della loro stessa beatitudine.

E ora, affondami nell’aurora della Tua presenza, è scritto in un antico apocrifo, perduto nella mia memoria; e nessun’altra definizione potrebbe descrivere meglio l’intensa sensazione di trascendenza e di annullamento che il camminare in quei luoghi ha suscitato in me, pellegrino tra i pellegrini, se non un altro detto apocrifo: Chi è vicino a Me è vicino al Fuoco.

Ad un tratto, sulla destra, apparve infatti un vecchi asino, che slegato pascolava nel prato, e col suo sottile simbolismo evangelico pareva indicarmi, sulla sinistra, una ripida stradina nascosta, che si inoltrava nel fitto sottobosco della macchia mediterranea: Skiti prophitis Elias, era scritto sull’indicazione. Le skiti sono dei piccoli romitaggi costruiti sul territorio dei grandi monasteri, dai quali essi dipendono, dove piccoli gruppi di monaci vivono in comune, dedicando la maggior parte del tempo alla contemplazione; in particolare questa era singolarmente dedicata al patrono dei contemplativi athoniti, colui che ascese al Cielo da vivo sopra un carro di fuoco, Elia.

Decisi dunque di compiere una piccola deviazione e di inoltrarmi nel bosco; ma mentre salivo su per il sentiero lastricato che si arrampicava per la montagna, mi sovvenne improvviso un forte batticuore, e poco prima di raggiungere la sovrastante radura mi fermai, attonito e tremante. Fuoco, il fuoco dello Spirito… Mio Dio, in questa terra abitano i santi, quelli che possono restare in piedi dinanzi al Tuo volto, e sostenere il Tuo sguardo! No, io non posso ancora avvicinarmi, non sono ancora pronto per il fuoco… è troppo forte per me! – così mi sedetti in silenzio su una roccia.

Sentivo, percepivo nettamente la presenza di qualcuno, di qualcosa in quel luogo, che mi attirava ma nello stesso tempo mi tratteneva dal proseguire… chiusi quindi gli occhi e pregai, la mia mente era vuota. Passarono alcuni minuti e mi ricordai del consiglio che il mio amico sacerdote mi aveva dato in passato: L’emotività è un ricco dono, che ci porta a Dio se sviluppato con armonia. Non bisogna però lasciarsi prendere da essa, altrimenti ci porta fuori strada, e ci lega anziché scioglierci.

Allora mi alzai, tranquillo e immerso in una profonda pace, e decisi di tornare indietro; salutai quel luogo, ringraziai il Signore che vi abitava e lentamente mi rimisi in cammino. Ora i grilli riempivano l’aria di suoni, e mille insetti colorati, grossi come noci, si inseguivano tra i fiori; dopo una curva comparve d’improvviso il mare, e di lontano, simile al castello delle fate di Andersen, faceva capolino tra gli alberi il monastero georgiano di Iviron.

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Il santo patrono del monastero era, neanche a farlo apposta, San Giorgio, campione del combattimento spirituale e principe di tutti i “Cavalieri di Cristo” d’Oriente e d’Occidente; a lui erano dedicate diverse icone sparse per i corridoi e soprattutto quella posta sull’iconostasi del Katholicon, la chiesa rotonda al centro del prato, dov’è custodita anche la venerata immagine della Vergine Portatissa, rinvenuta tra le onde del mare dopo una tempesta.

L’immagine di questo santo guerriero, che a cavallo di un bianco destriero e avvolto in un rosso mantello sconfigge il dragone che emerge dalla caverna - a simboleggiare la vittoria finale contro il nemico interiore, che corona il cammino di purificazione - mi accompagnò dunque durante il mio soggiorno nei monasteri dell’Athos, breve invero e affannoso per i continui e faticosi spostamenti: i non-ortodossi, infatti, non possono pernottare per più di una notte in ciascun monastero, e per non più di sei giorni in tutto, a meno di speciali permessi.

Così, mentre mi trovavo a condividere per quei pochi giorni la vita di quei monaci, che al combattimento interiore avevano dedicato tutta l’esistenza, mi sovvennero le parole dell’Apostolo:

 

La nostra battaglia non è contro creature fatte di carne,
ma contro i Principati e le Podestà,
contro i dominatori di questo mondo di tenebra,
contro gli spiriti del male che abitano le regioni celesti.
(Ef. 6,12)

 

E invero tutto nella spiritualità athonita è incentrato su questa profonda esigenza di purificazione interiore, di assoluta umiltà, di completo annientamento dell’Io, per far posto allo splendore estatico della “luce taborica”, alla “calda tenerezza del cuore” e al “dono delle lacrime”, che portano il monaco a rimanere faccia a faccia con Dio, nascosto nella solitudine della sua cella o nell’ordinaria apparenza delle sue mansioni quotidiane.

Ma se si spera di poter trovare ancora nei monasteri qualche testimonianza esteriore della pratica esicasta, qualche citazione dalla Filocalia o qualche indizio di una tradizione contemplativa tutt’ora viva ed esistente, allora probabilmente si resterà delusi – perché anche qui, come altrove, ciò che faticosamente sopravvive agli artigli del tempo, oltre a edifici troppo spesso cadenti e corrosi dalle intemperie e dalla salsedine, è una ritualità pomposa e prolissa, fatta di lunghi e sovraccarichi cerimoniali esteriori, più che una testimonianza di vivente spiritualità o una continuità ininterrotta con le antiche tradizioni contemplative del passato.

Tra i monaci che ho potuto interrogare, infatti, nessuno conosceva l’esicasmo, e tutti mi rimandavano agli eremiti isolati nella “Tebaide verticale” e mi invitavano a recarmi da loro, se ero in cerca di estasi mistiche o di prodezze ascetiche: un esempio evidente di come ormai, anche in Oriente, le dimensioni della spiritualità contemplativa siano troppo spesso dimenticate e sconosciute anche alla maggioranza dei religiosi e dei novizi.

Ma la santità dei luoghi e il silenzio sacro che vi regnava rimanevano in me, e ad ogni immersione nel grande tempio naturale dell’Athos mi sprofondavo di più nel suo mistero, e ad ogni passo risuonava dentro di me quella domanda, che fin dall’inizio del viaggio mi aveva accompagnato: Cosa significa per me questo viaggio? Quale messaggio mi porta?

E mentre i giorni passavano e il mio tempo volgeva al termine, procedevo spedito di monastero in monastero – Iviron, Filoteu, Karakolou, Meghistis Lavras, fino ad arrivare a doppiare il capo della penisola, l’Akratos, la “Tebaide verticale” dove vivono da millenni gli eremiti, per poi giungere all’ultima tappa, il monastero di Aghiou Paulou, alle pendici estreme della montagna, e da lì ripartire per il porto d’imbarco, e ritornare finalmente “tra i vivi”.

Ma mentre superavo in barca il ripido e incredibile strapiombo che costituisce il “grande capo” dell’Athos, costantemente bruciato dal sole che sorge dall’acqua ad est e ritorna nell’acqua ad ovest, martellando senza sosta la montagna a mezzogiorno, le risposte improvvisamente vennero giù tutte insieme, precipitando dalle rocce come folgori e sommergendomi completamente, in un’esperienza finale di gioia e consapevolezza profonde: era come se, superando quel capo, avessi in realtà superato me stesso, e consumato i ricordi.

 

*

 

Eravamo un gruppo di una decina di visitatori, fra pellegrini greci e turisti, che dal monastero della Grande Lavra volevamo raggiungere in barca Aghiou Paulou, al di là del capo; era questa una traversata non sempre possibile, che aveva spesso creato grossi problemi ai pescatori a causa dell’impetuosità delle correnti e degli scogli a pelo d’acqua. Spesso infatti, per raggiungere l’altro versante e dirigersi verso il porto d’imbarco, si era costretti a compiere una lunghissima marcia a piedi, su per le pendici del monte Athos, della durata di otto-dieci ore, prima di arrivare al monastero di San Paolo, poiché il mare non permetteva altrimenti.

Questa volta eravamo stati fortunati, perché il tempo era bello e il mare una tavola; con noi c’erano anche dei giovani monaci, probabilmente eremiti, che chiesero di sbarcare vicino ad alcuni scogli solitari, dai quali partiva forse qualche sconosciuto sentiero, invisibile allo sguardo, che li avrebbe portati, su per il ripido e assolato strapiombo della “Tebaide verticale”, fino alle loro grotte e alle loro caverne.

E fu proprio guardando in alto verso le rocce che il mio cuore finalmente si sciolse e gli occhi mi si riempirono di lacrime, isolato a poppa vicino al motore e al riparo da sguardi o domande indiscrete; vedevo le grotte e le caverne nascoste, qualche mattone di contenimento, qualche palo o tettoia che si confondevano con il paesaggio, e tutto d’intorno quella immensa, sconfinata solitudine – eterna, infinita, insondabile – come il mare e come il cielo, che s’incontrano all’orizzonte e scompaiono l’uno nell’altro, come il vento, che batte senza posa tra gli scogli desolati, come il sole, che brucia gli occhi e la pelle, le rocce ed i cuori… come Dio, che tutto vuole da chi lo ama, e che tutto a lui ridona.

Sentivo la solitudine di quegli uomini che parlavano con gli angeli e abitavano tra i demoni, circondati da ogni parte dal nemico e sottoposti a una perenne prova, a una tentazione continua – veri eredi degli antichi eroi che prima di Cristo abitavano quelle terre – e mi pareva che il vento ne portasse la voce, il canto… o forse il pianto.

Quanti monaci si erano tuffati da lassù, convinti di volare come gli angeli, quanti di essi non avevano retto, impazzendo e cadendo lungo la via… quanti invece avevano vinto, e ora sedevano in Cielo, e da lì guidavano e accompagnavano i loro fratelli nella faticosa scalata verso la vetta della Montagna Sacra!

 

Vertigine è ascesi, Vertigine è volo d’Angeli…

 

Lassù vivevano i Padri; ma io Padre non ero, e quell’incontro suonava in me come un ultimo, dolcissimo addio ad un mondo che non era più, e che di lassù mi salutava e mi benediceva, destinandomi verso altri lidi e altri giorni, e lasciandomi nel cuore una meravigliosa gioia spirituale: forse anch’io, per un attimo, avevo visto Dio…

 

Epilogo

 

Quella notte dormii nel monastero di Aghiou Paulou, alle pendici estreme del monte Athos, e la sua massa imponente incombeva fin dentro i miei sogni, dove accoccolato su se stesso alla maniera esicasta un enorme monaco dalla barba bianca era venuto a trovarmi, per recitare con me la “preghiera del cuore” e darmi le ultime istruzioni d’addio.

Tra gli Indiani, mi disse, vi sono alcuni che seguono una via spirituale chiamata ‘neti-neti’, ‘non questo, non quello’: quella non è la tua strada, la tua strada, invece, è ‘tutto-tutto’…

Testa nella foresta, mani nella società: ancora una volta tornava quel sogno, ancora una volta appariva qual segno, ma questa volta non più all’inizio, bensì alla fine dell’intero viaggio.

Al mattino mi svegliai di buon’ora, e mi preparai alla partenza; ma non potevo fare a meno di ripensare dentro di me a quel sogno, a quell’ultimo incontro notturno con quella guida inattesa, e di riascoltarne la voce: era dunque questo il vero dono interiore che l’Athos mi aveva fatto, riconsegnandomi lavato e stirato al mondo dei vivi, al mio lavoro, ai miei amici, alla mia famiglia… dopo il giro di boa, che allo scadere dei trent’anni aveva definitivamente consumato in me tutti i ricordi d’ascetismo e acceso con maggior fuoco la fiamma viva del misticismo, una volta tornato a Roma fondai con mia moglie il Centro Ricerche Musica dal Profondo, e insieme ci tuffammo a capofitto in quest’impresa.

 

Roma, Ottobre 1991
 

in Appunti di Viaggio, anno II, n.7, Nov-Dic 1992, p.55-57 (prima parte);
anno II, n.8, Gen-Feb 1993, p.61-67 (seconda parte); anno II, n.9, Mar-Apr 1993, p.59-61 (terza parte)

 

 

O Trisagios Ymnos, The Thrice Holy Hymn